mercoledì 26 dicembre 2012

Ragazza Afgana di Steve Mccurry


Sharbat Gula è il nome della "ragazza afgana" nello scatto di Steve Mccurry.

Soggetto, prospettiva, sfondo, colore, tutte le strutture fondamentali della composizione si legano armoniosamente rompendo confini e superficie. Occhi che rapiscono.

Dopo alcuni anni il Mccurry ritrova la stessa ragazza. 

Quella fotografia che li aveva legati per così tanto tempo si ripropone nel 2002 con un risultato molto diverso. 
La speranza di vivere una vita diventa consapevolezza di averla vissuta.



Mi chiedo se in quel secondo scatto sia visibile l'emozione che il fotografo provò nell'aver ritrovato quella giovane donna.
Mi chiedo se la fortuna di cui quello scatto ha goduto nel mondo dell'Arte Occidentale sia la stessa fortuna di cui abbia mai goduto Lei, che ne era l'artefice (almeno in parte).

Uno sguardo duro che non racconta ne speranza ne fortuna.

Osservando quella "ragazza", gli spettatori tendono quasi ad abbassare lo sguardo; forse un segno di rispetto, forse un disagio provocato dal senso di colpa. Il mondo dell'Arte è in debito con Lei......e lo sa.

martedì 25 dicembre 2012

sui colori di Michelangelo Buonarroti



Sostenete senza riserve  
 chiunque affermi 
 che Michelangelo Buonarroti
 è il vero,
 primo,
 Manierista.
                 



martedì 18 dicembre 2012

Newman...Newman.


Newman...Newman.

La ripetizione invita inevitabilmente a riflettere.
Quando si afferma che per comprendere l'arte bisogna esser preparati si dice una banalità che spesso non viene considerata. Senza una giusta riflessione infatti si affronta l'opera con un bagaglio di preconcetti indiscutibilmente forvianti.
Il pregiudizio senza la conoscenza sottintende un'evidente dato di fatto, che si chiama ignoranza.

Questa premessa sottolinea come di fronte a personalità così profonde come è quella di Barnett Newman, si debba cautamente procedere evitando di farsi soggiogare dalle prime impressioni, come fece chi scrive la prima volta che lo avvicinò.

Non comprendevo cosa volesse intendere Newman con questi enormi muri colorati, divisi da fasce alternate in maniera del tutto arbitraria nel mezzo dello spazio pittorico.
Non conoscevo il suo trascorso lavorativo, quello che lo ha visto abbandonato da tutti coloro che egli promosse nel corso della sua attività artistica, sia con saggi sia con mostre dedicate o tramite numerose interviste a tema.
In poche parole ero completamente disorientato dal suo lavoro che per me rimaneva un'incognita priva di senso.

Rappresentava semplicemente la modernità, tiepidamente intesa come la capacità di ridare bidimensionalità alle immagini; la capacità di mostrare il colore come strumento primario della ricerca pittorica; capacità di esplorare lo spazio in maniera più meticolosa e meno caotica di quella promossa dall'Espressionismo Astratto. Tanto bastava per me nel promuovere Newman come ambasciatore del Minimalismo dei successivi anni '60.

Forte di una preparazione figurativa che credevo sufficiente, tutto ciò che distogliesse l'attenzione dalla forma era incapace di suscitare interesse. L'Astrazione era per me quella di Pollock non quella di Newman. I miei limiti erano evidenti.
La figurazione era un porto sicuro al quale attraccare. Avevo certezza di senso, certezza di forma e d' impianto prospettico. Certezza di rimando storico ed un' iconografia rintracciabile. Certezza di scindere tra ciò che sono io e ciò che rappresenta l'opera.
Io sono il fruitore tu sei l'opera. Io ti osservo e tu sei li per lasciarti scrutare.
Quando invece osservi qualcosa di incompreso, di "astratto" appunto, cominci a chiederti di cosa si tratti ed allora finiscono le certezze; la forma scompare, i limiti vengono meno, ti dimentichi dello spazio circostante poiché senti quasi di esserci finito dentro, tuo malgrado senza le giuste coordinate.
Ammiravo chi riusciva a stare di fronte ai suoi dubbi, alle sue infinite interpretazioni senza tuttavia subirne la grandezza.

Credo di aver voluto fuggire l opera di Newman perchè incapace di affrontarla.

Nell'aprile del 1951 la seconda mostra dell'artista 46enne Barnett Newman fu un fiasco completo, ancor peggiore di quanto non fosse stata la sua prima personale svoltasi sempre a NY l'anno precedente.
I suoi compagni astrattisti lo avevano abbandonato accusandolo di averli traditi.
Ed effettivamente se si vede nelle opere che precedono il 1950 quest'accusa appare del tutto giustificata.
Se nelle prime tele infatti lo spazio che circondava le bande verticali era mosso e impreciso, così da accostarsi alle ricerche di Rothko e compagni, dopo gli anni '50 le stesse tele ospitano delle campiture di colore più attente, assolutamente delimitate nei bordi, prive di qual si voglia
"espressione" istintiva.

Quali allora le domande che suscitano i suoi lavori.

1.Perche Newman rompe con il suo recente passato?
Ciò che egli voleva era determinare anzitutto lo spazio della tela poi quello dell'ambiente circostante. Quando sostiamo difronte ad una campitura imprecisa la prima cosa che salta agli occhi è la banda di colore diverso, la quale immediatamente occupa il primo piano, allontanando lo sfondo sul retro della visuale. Allora Newman colora sia spazio che banda con la medesima modalità di stesura. Se guardiamo ora notiamo che spazio e forma (la banda) sono un tutt'uno con la superficie.

2.Perchè la presenza delle bande?
Anzitutto “zip”. E' così che Newman preferisce considerarle poiché uniscono e non dividono. Quelle zip siamo noi. È la nostra presenza verticale che si rifà alla tradizionale visione verticale propria dell'uomo. E siamo ancora noi che in mezzo allo spazio ci troviamo a viverlo non sapendo di esserne ai limiti o al centro, piuttosto spostati di un terzo al suo interno.

3.Ancora, Perchè quelle dimensioni?
Perchè quelle dimensioni rappresentano non solo lo spazio, ma il campo visivo, ed è per questo che i suoi quadri devono essere visti da distanza ravvicinata, per entrarci dentro e farne parte. Gli unici punti di riferimento sono le zip presenti, che poi siamo noi.
Guardare queste grandi opere da una distanza maggiore vorrebbe dire includere tutta l'opera in una sola unità, cosa che è assolutamente il contrario dell'intento di Newman, che intendeva intromettere non lasciar fuori.

Non c'è più profondità ne secondi piani, semanticamente non vi è più passato, non vi e più storia. Vi è al contrario un'unica dimensione di tempo e di spazio che è la superficie e perciò, il solo presente.
Newman tenta di azzerare la tradizione pittorica per ricominciare da capo. Vuole tornare alle origine. Ricomincia da noi, dalle persone, attraverso lo strumento principale che è la visione, e lo fa attraverso una saturazione dei colori rendendoli estremamente manifesti tanto da suscitare in qualche sconsiderato la necessita forse inconscia di violentarla con tagli selvaggi ed irriverenti.

Questa "reazione" la dice lunga sull' incapacità di essere al cospetto di queste opere.  

venerdì 14 dicembre 2012

Uno sguardo al presente per comprendere il futuro: l' arte dimenticata


Dal disagio odierno nei confronti delle periodizzazioni, che lasciano fuori dal cerchio molte espressioni individuali a causa di un anticonformismo, aggiungerei necessario.
Nasce il problema della Storia dell'arte così come la si intendeva. Il testo va ad inscriversi a pieno titolo come ulteriore passo avanti dopo le questioni sollevate da Belting e Danto su “la fine dell'arte”, non come cessazione della produzione artistica bensì come fine di una progressiva narrazione di uno stile determinato e determinante, sintomo di una norma dittatoriale vigente.
La contemporaneità rompe questo filo conduttore come fece l'artista performer Hervè Fischer nel 1979, al Centre Pompidu di Parigi spezzando una corda molto lunga.

I temi affrontati sono quelli che interessano la fine del secolo scorso e l'inizio di quello che stiamo vivendo: pregiudizio, accettazione, globalizzazione, diaspora, eroine e non più eroi.

martedì 11 dicembre 2012

Il solo pensare che i suoi ultimi tocchi non fossero di pennello bensì di polpastrelli intrisi di sapienza e spregiudicatezza mi sconvolge.
Si può credere alla suggestione di un'azione tanto sconsiderata?
Leonardo da Vinci, ambidestro, nelle sue ultime opere ritrova lo "sfumato" passando le mani sopra la tela; tornava sulle zone che intendeva d'ombra rendendole così cupe, meno nette, opache, sino al punto di farle divenire "fumo".

Incredibile pensare a Leonardo negli stessi termini di Tiziano.
Immaginarlo tanto preso dal proprio lavoro da volerlo toccare..............incredibile!


"[...] sono solo dei vecchi mobili pieni di polvere."


La terza camera è un' istallazione presentata da Flavio Favelli nel 2007 al Centro Commerciale di Cinecittadue in Roma.
Intenzionata a comprenderne il senso, la curatrice Simona Brunetti pone le domande che crede più opportune:

Cosa vuole dire Terza Camera?
Perché la scelta di questa esposizione?

Favelli risponde che la Terza Camera è un ambiente della casa di montagna di famiglia. Una stanza che raccoglieva oggetti e mobili, come fosse una soffitta o un ripostiglio, ma che differentemente dai comuni spazi domestici come questi, era aperta agli ospiti e sempre ordinata.
E' un luogo della memoria che suscita nell'artista il ricordo di un ambiente familiare ed evidentemente tanto suggestivo e sinistro da doverlo riprodurre in un opera.

Lei parte dagli oggetti o dai ricordi che questi oggetti le suggeriscono?

Favelli parte sempre dagli oggetti per poi arrivare ai ricordi e mai viceversa.
Il collezionismo di suppellettili e oggetti vari spiega, è una passione ereditata dal nonno.
Pierluigi Sacco, giornalista di “Flash Arte” lo definirebbe “un trovarobe” instancabile.

Come possono questi oggetti così chiaramente tanto personali aprirsi al mondo dell'arte?
Quale il loro significato intrinseco?

In questi ambienti egli è come se rivivesse, stavolta come parte attiva e non subordinata, la sua infanzia infelice, spesso piena di solitudine in ambienti quasi mistici e pieni di oggetti più o meno preziosi.
Riaffiorano alla memoria i suoi “viaggi d'arte”, che assieme alla madre condivideva per evadere dalla quotidianità.
Per Favelli l'arte già da bambino rappresentava uno strumento di libertà emotiva.
Forse è per questo che gli oggetti di ieri divengono le opere d'arte di oggi.
Non solo tenta di esorcizzare i suoi incubi infantili ma come direbbe Freud ne “il gioco del rocchetto”, tenta di riappropriarsi della sua soggettività smarrita.

Proviamo ad aprire una finestra nella pratica psicoanalitica per tentare di comprendere meglio questo mio rimando...
Durante le sue prime esperienze di medico, Freud analizzando il comportamento di un infante all'interno del suo nucleo familiare, rimase colpito da come il bambino non soffrisse affatto l'abbandono della madre ogni qual volta si allontanava da casa.
Dopo averlo seguito per alcuni giorni, Freud notò un comportamento anomalo e ripetitivo nei confronti di un rocchetto, che il bambino lanciava, emettendo un suono di evidente soddisfazione, per poi riprenderlo e ricominciare l'azione del lancio, da capo.

Così facendo, sostiene Freud, il bambino si liberava della frustrazione inconscia dell'abbandono materno, divenendo parte attiva. Era lui che ora abbandonava la madre/rocchetto, non più viceversa il rocchetto/madre che lo abbandonava.
La diagnosi è una tendenza inconscia che definisce una "coazione a ripetere".

Considerando quindi un punto di vista più personale che non prettamente artistico e iconografico, questo aspetto della ripetitività, della "ri- produzione" della memoria, potrebbe rivelare delle dinamiche affettive interessanti nel modus operandi di Flavio Favelli.

Ri-allestendo quelle sale, egli ripropone quegli stessi spazi della memoria affrontandoli a viso aperto, stavolta come adulto.